Si possono tenere insieme ritmi ballabili e testi interessanti?
In Margot, il nuovo album di Roberto Carlotti, di fisarmonica non se ne sente poi molta. Questo non sarà però un motivo di disappunto per chi, conoscendolo come sensibile e navigato cultore di questo strumento, si accinge all’ascolto aspettandosi magari una seconda puntata del Giardino di Sofia, il suo album del 2007 che alla fisarmonica era interamente dedicato. Qui ci sono invece dieci canzoni, tutte sue composizioni originali, dove la fisarmonica compare solo come accompagnamento in mezzo ad altri strumenti acustici.
“Per un lungo periodo – dice Carlotti – ho “sottovalutato” la forma canzone, dando tutta la mia attenzione alla musica strumentale; poi ne ho inventata qualcuna per scherzo e …” Ecco dunque un disco in cui la prima cosa che colpisce è l’immediata comunicativa; cifra riconoscibile di chi musica popolare ne ha frequentata tanta, così che quando decide di mettere in musica dei testi finisce, quasi naturalmente, col restare (così Carlotti definisce se stesso) un “musicista da ballo”.
L’album, nonostante queste premesse, non suona per nulla “folk” nel senso rustico del termine, e i musicisti coinvolti sono quasi tutti di formazione eclettica. Le canzoni sono affidate alla voce estroversa di Tiziana Zoncada, che appare perfettamente calata nell’atmosfera e dimostra personalità e intonazione sicura. Carlotti suona, oltre alla fisarmonica, anche la chitarra e il basso acustico; Silvio Centamore batteria e percussioni; Giulia Larghi il violino, Camilla Uboldi il mandolino; registrazione e mixaggio di Daniele Caldarini.
Non c’è nemmeno una canzone d’amore, almeno nel senso usuale del termine. Ci sono storie, personaggi, riflessioni e confessioni; un po’ di sogno e un po’ di disincanto, sguardi affettuosi, saggezza, e – sotto traccia – una buona dose di serena ironia. Il mondo dei balli tradizionali, e in genere della socialità che le persone intrecciano intorno alla musica e alle danze, è comunque presente in prima persona in molti dei testi. Così La serata giusta, che apre l’album, un brano con inserti melodici di scottish e con il refrain programmatico, “canto solo quello che mi va….” ; così la title-track Margot, che pare una sorta di manifesto del popolo delle danze folk, incontri di una serata trascorsa in piazza a ballare. E i ballerini irrompono in massa in La dama bianca, giga-tarantella-jig da ballare come un circolo circassiano, ambientata in una piazza gremita dove sfila una galleria di personaggi che sembrano maschere di una moderna commedia dell’arte. “Fatemi posto che ballo anch’io … tutti i miei passi voglio inventare, la danza nuova voglio ballare”, così si snocciola il testo di una parata di figure umane, che ballano, che sudano, che sono venute portandosi dietro i loro pensieri quotidiani e per una sera possono immaginarsi liberi.
Non viene voglia di indagare troppo sulle metafore che magari nel testo ci sono; su chi siano davvero il fante di cuori, la dama bianca e la dama nera. A volte le suggestioni si lasciano come stanno, senza voler sbirciare a tutti i costi dietro lo schermo. E si può solo immaginare da dove vengano e dove vadano i protagonisti delle storie che si intravedono, solo accennate, nella mazurka L’irriverente, dove prendono voce i pensieri personali di quel signore che è lì sul palco ad azionare il mantice della fisa, e che fa volentieri due chiacchiere con i ballerini, a volerlo ascoltare. Difficile non starlo a sentire, se parole serie ti vengono proposte a tradimento sopra il ritmo morbido di una melodia in tre quarti, che ti dondola e ti liscia il pelo. “Se mi è rimasto il tempo vi canto una canzone … Si balla tra le nuvole, un tocco di poesia , ma il committente è pratico, lui sta in biglietteria.”
Sono comunque canzoni scritte oggi che parlano del mondo di oggi. Di chi deve continuamente andare avanti tenendosi al passo con un ritmo incalzante, tra “quello che volevi fare e non hai fatto mai, domani lo farai” (La strada), dove se ti fermi è solo per un attimo e se ti volti ti trasformi in sale, ed invece non è detto che sia il solo modo possibile. Di un futuro che si riesce a immaginare solo nelle proprie semplici aspirazioni personali (Venerdì), perché se si prova ad immaginare un mondo fatto in un altro modo, si fa fatica a pensarsi diversi (Se scoppiasse la pace). E anche nel riposo, nella semplice descrizione di un riposante weekend in campagna raccontato con sonorità country, si insinuano i tarli di una domanda vagamente ambigua (Come mai?) – e delle parole aspre di Crapa Pelada.
Tra tanta gente comune, l’unico personaggio direttamente identificabile è quel celebre signore che un po’ di anni fa si è impadronito dell’Italia, e che è sempre più maschera di se stesso, cui sono dedicate ben due canzoni: il sinistro ritmo in 5/4 di Lettera, appello accorato di una prostituta professionista che vede il suo mestiere insidiato dalle dilettanti; e la soavemente minacciosa Mazurka del caimano, dalla melodia ruffiana come il suo protagonista.
La musica si fa per le persone, il ballo lo fanno le persone, e in mezzo c’è il musicista che sa godere del fatto di far ballare la gente, ma, già che è lì, può aver voglia di raccontare qualcosa attraverso le parole. Saranno forse incontri effimeri, quelli occasionati dalla musica; a fine serata si torna a casa, il giorno dopo ci sono frustrazioni e fatiche, e altri sogni per chi ce li ha; anche nel resto della vita tante persone passano così, senza condividere un’esistenza ma solo qualche tratto percorso insieme. Sono comunque incontri, tra polke, reel e bourrée, così che a stare con gli occhi e le orecchie aperte, giorno dopo giorno, ti confronti la tua idea del mondo, che non comprende solo musica ma – per dire – la politica e l’economia. Non smetti per questo di essere un musicista. Come chiosa L’irriverente: “Ma poi sarà la musica che parlerà di te, carogna come il diavolo, sincera se lo è . . .”.
Luigi Fazzo
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