Tornavo in auto a casa, proprio mentre alla radio (RAI 2, programma Gli spostati, credo) promuovendo il suo ultimo libro (un pamphlet, l’hanno definito i conduttori…), Gino Castaldo rifletteva sull’amaro destino della musica oggi. Sentendolo parlare di mercato, corruzione della musica, assenza di anima, ho pensato che i tempi che viviamo sono a dir poco paradossali se uno dei maggiori responsabili morali del decadimento della cultura musicale del nostro Paese ha l’impudenza di scrivere un libro sulle sorti della musica e nessuno ha il coraggio di prenderlo a pernacchie. Un po’ come se Mussolini avesse scritto un pamphlet contro la dittatura e lo avesse promosso tramite l’Istituto Luce o Berlusconi tenesse una conferenza stampa contro il consumismo e la pubblicità televisiva a reti unificate sui canali Mediaset…
Per fortuna, prossimo allo svenimento e alla perdita di controllo dell’auto, ho potuto traslare dalla radio al lettore CD con la semplice pressione di un tasto (miracoli della tecnologia!) e ritrovare l’ultimo album di Matilde Politi, uscito da qualche settimana.
Può sembrare retorico, e confermare paradossalmente le tesi ipocrite di Castaldo, ma dischi così non se ne registrano quasi più. I nuovi tredici pezzi cantati da Politi, dopo l’ottimo, raro A tirannia, confermano che la musica folk (geneticamente modificata) sopravvive ormai solo grazie a sempre più rari fuochi fatui, a dispetto di Castaldo & C. che hanno fatto e disfatto per ridurre la musica in Italia a un fatto di consorterie, mode vuote, prodotti da vendere.
Qui, al contrario, è contenuta una risposta inequivocabile al periodico piagnisteo ipocrita di chi, appunto, dichiara la fine della musica con la rivoltella ancora fumante tra le mani: la musica, quella autentica, creativa, che sa farsi poesia, che sa penetrare nel profondo sentimenti e coscienze, esiste, è disponibile; si tratta di volerla incontrare, volerla ascoltare, decidere di farla conoscere, raccontarla agli altri anche quando – soprattutto quando, diremmo – è indifesa, indipendente, esiste al di fuori delle conventicole giornalistiche, dei poteri forti della discografia, non muove grandi interessi economici.
La bellezza di Figghiu miu, terzo brano del disco – un’invocazione da madre a figlio che sembra nata da una dimensione amniotica dello spirito da tanto è intensa, profonda, sentita – esprime un valore incommensurabile se accostata a quella presunta da più parti delle più belle canzoni della musica italiana degli ultimi anni: al suo raffronto, scompare La cura del furbo Battiato, ad esempio; impallidisce il tormentone rap del Jovanotti mistico (o papalino?) di Fango – suono di plastica che intossica.
La voce di Matilde intona parole semplici con la forza di chi sente davvero quello di cui canta. Il suo, è il Canto dei Canti intonato dalle tante donne sconosciute del mondo popolare contadino; delle cascine della Padania o degli stazzi di Sardegna; è il canto che sale dai pajari pugliesi o dai campi siciliani, delle case modeste di un’Italia certo più povera e arretrata ma più vera, la stessa rimpianta dal Pasolini degli Scritti Corsari. Un canto dalla potenza e dalla grazia espressiva che nasce dalla fierezza delle proprie radici, si fa ricerca di una forma di comunicazione che è antica e moderna insieme perché capace di rinnovare la traduzione dei sentimenti provati. Ci vuole umiltà, Castaldo, e libertà per ascoltare e sentire sul serio le musiche del mondo!
Luca Ferrari
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