Definire cosa sia il rock richiederebbe tre o quattro libri e i colleghi giornalisti che finora si sono cimentati nella definizione non sempre –leggi quasi mai- se la sono cavata brillantemente. E’ infatti probabilmente per questi motivi che per meglio definire il rock sono stati inventati una serie di prefissi e suffissi (folk rock, rock blues, country rock e chi più ne ha più ne suoni) per cercare di evitare l’insidia delle perifrasi ingannevoli e evitare di cadere nell’eccesso di genericità.
Inoltre, quarantacinque anni di ascolti consapevoli mi hanno convinto almeno di una cosa: il rock è il genere musicale più facile al mondo da suonare male. L’affermazione non ammette repliche e/o distinguo e me ne assumo ogni responsabilità. E’ forse per questo che in giro per il pianeta lo si suona tanto, cercando probabilmente di sopperire con la quantità alla qualità.
Giunto al suo diciottesimo disco in carriera, Fabrizio Poggi (che a questo punto definire il miglior bluesman italiano non è certo abusato né impreciso) ci regala insieme alla sua band un gioiello di rock-blues che, oltre a essere tremendamente ben suonato e ricco di senso e motivazioni, è di grande e gradevolissimo impatto sonoro. Se nei precedenti ultimi lavori discografici di Poggi i suoni folk e le argomentazioni spirituali sembravano aver preso il sopravvento nello stile e nell’ispirazione, “Spaghetti Juke Joint” si schiera apertamente sul fronte del rock e lo fa con una consapevolezza e una maestria tali da rendere inutile la nostra premessa sulla definizione del genere e/o ogni altro giudizio su chi lo suona più o meno bene. Solo come sanno fare altri capolavori del genere l’ultimo disco di Fabrizio trasmette il desiderio di movimento dalla testa ai piedi, coinvolge e trascina, dispensa emozioni eccellenti e lascia senza respiro com’è nelle conseguenze causate da ascolti massicci di rock (più o meno blues) da quando questo genere esiste e viene replicato in ogni angolo del mondo.
Roberto G. Sacchi
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