Uno dei dischi fondamentali del 2000 arriva negli scaffali dei negozi per vie traverse, per mezzo dell’etichetta bretone Keltia, sia pure su licenza Hummingbird. Poco male: la distribuzione I.R.D. ne assicura una facile reperibiltà anche in Italia. I motivi d’importanza di questo doppio CD sono più d’uno. Si tratta di una delle rare antologie (seppure con inediti) uscite nel panorama discografico di derivazione folk, oltre tutto assai ben fatta e rappresentativa: non solo dell’artista cui è intitolata ma anche di un modo intero di suonare, di un’era musicale (tuttora perdurante), di un approccio vero e proprio al revival della tradizione, in una terra che è da sempre nei cuori (e nelle orecchie) di ogni folkettaro che si rispetti); un’antologia, vogliamo sottolinearlo, perché su altre riviste (ancorché autorevoli: Musica! de La Repubblica, per esempio) se n’è erroneamente riferito come di un’opera originale. In secondo luogo, ‘StPatrick 2000’ è basilare perché giunge, tutto sommato giustamente, a celebrare trent’anni di attività musicale di uno degli artisti che più hanno contrassegnato, nel bene e (solo talora) nel male la musica irlandese attraverso tutte, dicansi tutte le tendenze espresse nell’ambito del folk revival. Donal Lunny, prima come musicista nelle più importanti formazioni dell’Isola Verde, poi soprattutto come produttore (di dischi, spettacoli e programmi televisivi che hanno quasi sempre destato scalpore), è uno dei nomi più importanti della musica internazionale di derivazione tradizionale. Ha collaborato, tra gli altri, con Kate Bush, Elvis Costello, Altan, Emmylou Harris, Indigo Girls, Mark Knopfler, Baaba Maal, Van Morrison, Sinead O’Connor e Rod Stewart; anche se personalmente non sempre siamo riusciti ad amarlo incondizionatamente, la sua figura, la sua importanza sono innegabili. In questo lavoro, vagamente suddiviso fra brani a proprio nome (il primo CD) e partecipazioni da co-leader a quelli altrui (il secondo CD) si leggono marchi di fabbrica da brivido: Planxty, Moving Hearts, Bothy Band, Sharon Shannon, Maighread e Triona Nì Dhomhnaill, la compagine della celebre serie BBC di ‘Bringing It All Back Home’ e così via. Decenni interi di passioni musicali, di sperimentazioni sconvolgenti e quasi sempre azzeccate (ma qui c’è il meglio), di grande musica tout court, scorrono via per un’ora e mezza e finiscono per scuotere alle fondamenta anche il più roccioso e cinico dei vostri recensori.
Il disco si apre con un lungo medley inedito, che è poi l’ennesima opera occasionata dal capodanno 2000 (e commissionata dalla RTE per la BBC): le 7 tracce che a propria volta lo compongono sono un viaggio ideale attraverso le nazioni celtiche, e vedono rispettivamente Gilles Servat (Bretagna), Natalie MacMaster (Nova Scotia), Llio Rhydderch (Galles), Aly Bain (Scozia), Brian Kennedy (Nord Irlanda), Carlos ‘prezzemolo’ Nunez (Galizia) e Sharon Shannon (Irlanda), oltre alla nuova band di Lunny, quei Coolfin già titolari di un disco uscito nel 1998 proprio per la Hummingbird ed in cui, oltre all’inseparabile Nollaig Casey, suona un pugno di giovani quanto ottimi musicisti. Il presente (ed il futuro) di Donal Lunny è probabilmente riassunto in questi 13 minuti e mezzo: musica innegabilmente ben suonata in cui egli, grazie ad un notevole carisma, riesce ad unificare il meglio dei musicisti che c’è, ma che suona un po’ troppo vuota, troppo celebrativa, troppo …postmoderna, per suscitare ancora emozioni sconvolgenti. Le quali viceversa giungono da alcune delle tracce più vecchie, tuttora attuali, a mostrare che razza di crack furono quelle band che rivoltarono il mondo della tradizione, nell’epopea che si snodò fra gli anni Sessanta e Settanta (a parte, se vogliamo, qualche richiamo all’epopea del folk-rock con l’estratto Moving Hearts, che peraltro non ci appassionarono più di tanto, neppure allora). E’ così che una versione nuova di zecca di un classico tra i classici, la celebre ‘Dùlamàn’, cavallo di battaglia proprio di quei …formidabili anni, realizzata in compagnia dei citati Coolfin ed anticipazione – a quanto è dato di capire – dell’imminente secondo album della nuova band, mostra suo malgrado la persistente attualità di quel sound inconfondibile. Del resto, lo stesso Donal Lunny (a proposito, si pronuncia ‘Lùni’) fu di per sé tra i principali innovatori nel panorama folk irlandese: lo strumento che l’ha reso celebre, il bouzouki, era stato introdotto solo negli anni ‘60 nella musica celtica; fu proprio lui, tra gli altri, a qualificarlo come strumento ritmico per eccellenza, nelle versioni via via più accelerate e virtuosamente contaminate, che i gruppi progressivi andarono proponendo nel decennio successivo, travalicando assai presto i confini della madrepatria e radicando questo strumento nell’Irishness, al pari di quelli autentici (tanto che in un kolossal come ‘Titanic’, ambientato oltre cinquant’anni prima, in una scena si presenta proprio… una band irlandese con tanto di bouzouki!).
Chiediamo scusa se una tantum ci siamo lasciati prendere la mano, e abbiamo dilagato anche …in termini di spazio. Ma in questa retrospettiva, assai ben confezionata anche nelle esaurienti note interne, non c’è solo il ritratto di un musicista. C’è una leggenda musicale, c’è l’anima stessa di buona parte dell’Irlanda che abbiamo imparato in questi ultimi trent’anni ad ascoltare. E ad amare.
Roberto Covallero
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