DUNYA FY8026, 2000 – FOLK PROGRESSIVO/ITALIA
Ricordiamo, con tenerezza e ammirazione, quello che forse è stato il debutto più o meno ufficiale di Filippo su un palco. Genova, naturalmente, presentazione del penultimo disco del padre Beppe, “Good News from Home”. Il ragazzino si esibisce al suo fianco soffiando con comprensibile emozione in un flauto dolce, prestandosi a uno dei duetti che il celebre genitore ha ideato per il suo disco. In uno di questi, poco prima di lui, ha suonato un certo Riccardo Tesi. Ci piace pensare che sia stato in quell’occasione che la scintilla dell’organetto sia scoccata in Filippo, ma anche se le cose non fossero andate così, resta il fatto che l’organettista pistoiese è poi divenuto il suo maestro e se qualcuno vuole avere un’idea dei risultati di quel percorso artistico iniziato forse per caso, si procuri questo “Stria” e se lo ascolti. Filippo Gambetta è ormai una realtà, giovanissima e ricca di talento e tecnica, del panorama dell’organetto italiano e probabilmente europeo, visto che la sua partecipazione estiva all’importante festival di Kaustinen in Finlandia (dove di mantici se ne intendono, eccome!) siamo certi sarà per lui una definitiva consacrazione.
“Stria”, strega in genovese, è un disco difficile, coraggioso e maturo, ricco di stimoli e sensazioni, in cui riecheggiano gli ascolti inusuali di un ventenne d’oggi, si esprime il suo punto di vista musicale, si esplicita il suo amore per uno strumento capace di dare tante soddisfazioni (a chi lo suona e a chi lo ascolta) se solo alla tecnica si applica anche almeno un po’ di fantasia. Fantasia, però, è una parola che non riesce ad esprimere appieno lo spessore artistico di Filippo Gambetta per il quale la parola genialità non ci pare affatto sprecata. I suoi temporanei compagni di cammino (Mariana Carli, violoncello; Francesco Donini, violino; Claudio De Angeli, chitarra) pur essendo tutti musicisti titolati, paiono accettare di buon grado il ruolo di seconda fila in cui la bravura di Filippo li colloca, e contribuiscono con duttilità e tocchi sapienti alla assoluta eccellenza del risultato finale. Stesso destino, inevitabile, per i numerosi ospiti che incrementano la timbrica del quartetto, punteggiando qua e là con interventi funzionali e opportuni lo svilupparsi del discorso musicale. Il disco presenta, e forse sarebbe impossibile il contrario, qualche ruvidità in alcuni passaggi un po’ insistiti e ogni tanto il protagonista si sente un po’ troppo tale. Sono peccatucci assolutamente veniali, che non tolgono nulla alla brillantezza dell’insieme, anzi ne esaltano ancor più i catturanti passaggi migliori. Il miglior debutto discografico degli ultimi anni.
Roberto G. Sacchi
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