Sono soddisfatto. Da seminatore di zizzania professionale, quale in determinati momenti mi piace essere, assisto con godimento allo svilupparsi del dibattito suscitato dall’editoriale del mese scorso su folk metal e dintorni. Se non l’avete ancora fatto, andatevelo a rileggere arricchito dai numerosi commenti che ne hanno fatto seguito. Mai, nell’ultraventennale storia di FB-Folk Bulletin, un dibattito aveva raccolto in poco tempo così tante voci differenti e interessanti: certamente il cambio di mezzo, da cartaceo a telematico, gioca un ruolo fondamentale in tutto questo e non posso che esserne contento. E mi conferma nell’idea che abbiamo visto giusto quando, d’accordo con l’editore, decidemmo di dare corso a questa piccola grande rivoluzione. Se non ci fosse il web, quante sarebbero state le probabilità di un confronto di idee fra un musicista di folk metal e il direttore artistico del più storico e importante folk festival dell’Europa mediterranea? Praticamente nulle. E invece, è successo. E noi, come testata giornalistica, ne siamo orgogliosi perché tutto questo è avvenuto nel nostro spazio, e non altrove. Segno che la dichiarata ambizione di diventare “il portale del folk in Italia” non è poi così campata in aria. E a tutti quelli che storcono il naso di fronte agli scambi di idee, anche accesi, che possono verificarsi nella normale quotidianità di un mondo musicale in pieno fermento (qual è il folk oggi in Italia), rispondiamo che la pluralità di opinioni è un ambiente fertile per far crescere la qualità anche musicale del genere che amiamo. Certo, non tutti la pensano come noi e alcuni preferiscono giocare in difesa dei presunti titoli acquisiti utilizzando i propri spazi virtuali o di carta per auspicare a un ritorno all’arcadia (mai peraltro esistita, dato inconfutabile perché storico) del folk, trinciando pesanti giudizi sulla supposta povertà qualitativa di quanto viene prodotto oggi. Il loro giudizio rigoroso e severo si è esteso di recente, con analoga veemenza dialettica, al panorama europeo dove –pare- che le ultime cose decenti siano state suonate negli anni Settanta o forse anche prima. Rispettiamo tutte le idee, ci mancherebbe, ma ridurre una fucina di talenti (qual è il folk oggi in Italia) a un’esangue e sterile replica nostalgica dei bei tempi andati non ci trova per niente d’accordo. E che il folk in Italia sia oggi vivo e vitale non è dimostrato soltanto dall’esistenza di gruppi altamente professionali (che, guarda caso, non piacciono ai nostri detrattori), ma anche dalla crescita qualitativa dei gruppi emergenti che ogni anno partecipano a concorsi come “Folkcontest” o “Suonare a Folkest”. Certo, c’è ancora molto da fare, soprattutto dal punto di vista manageriale e organizzativo. Ma di questo a “loro” non interessa, a “loro” che sono puri e duri, a “loro” che se ne fregano che qualche musicista possa anche vivere suonando, quindi essendo pagato a sufficienza, così come dovrebbero essere remunerati dignitosamente i discografici folk e gli organizzatori di eventi folk, i giornalisti folk e tutti quelli che con passione e costanza si battono perché questo genere sia almeno parificato con il resto del mondo musicale, anche nei diritti e non solo nei doveri. Operare intellettualmente per riportare il folk indietro di quarant’anni, evocando aie mai esistite e “buoni selvaggi” che suonano male e cantano peggio, è un’operazione che rasenta il reato. La musica è viva, “The Folk Goes On” (parafrasando Sonny & Cher che negli anni Sessanta lo cantavano a proposito del Beat). Prendiamone atto.
Roberto G. Sacchi
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